2 Febbraio 2015

Buone novelle

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Siamo entrati in febbraio dopo un terribile mese di gennaio fatto di violenza. Non ci arrendiamo e crediamo che il futuro sarà migliore del passato.

Due segnali positivi in cui mi sono imbattuto stamattina: il libro di un ex campione del mondo del calcio ed un articolo su una rivista cosiddetta”femminile”.

Di Lilian Thuram conoscevo le grandi doti di calciatore, di uomo di sport, di serio professionista, da stamattina ho saputo che è anche un grande intellettuale.

Intervenuto in diretta su Rai Radio 1, Thuram, ha raccontato la sua esperienza post calcistica dedicata principalmente alla sua Fondazione, che si batte contro il razzismo ed i pregiudizi.

Da poco è uscito un suo nuovo libro dal titolo “Per l’uguaglianza”, 2014, ADD Editore: “Razzisti non si nasce, lo si diventa. Neri non si nasce, lo si diventa (quando ti dicono che lo sei). Questa verità è la chiave di volta della Fondazione “Education contre le racisme”. Il razzismo è una costruzione intellettuale e soprattutto politica. Dobbiamo prendere coscienza del fatto che di generazione in generazione la Storia ci ha condizionati a tal punto che abbiamo finito per considerarci neri, bianchi, maghrebini, asiatici… Per poter distruggere i nostri pregiudizi è importante capire come sono nati. La nostra società deve assimilare il semplice concetto che il colore della pelle, il genere, la religione, la sessualità di una persona non ne determinano affatto l’intelligenza, la lingua che parla, le abilità fisiche, la nazionalità, quello che le piace o che detesta. Ognuno di noi è in grado di imparare qualsiasi cosa, che sia il meglio oppure il peggio. Capire come “funziona” l’essere umano è una curiosità che mi accompagna fin da bambino. Ho cominciato raccontando la mia storia perché è nella famiglia che nasce la nostra identità. Il modo in cui i genitori ci descrivono e ci promettono come sarà la vita è fondamentale. Coltivare quella curiosità mi ha insegnato che aprirsi al mondo scardina le trappole del razzismo, del sessismo e dell’omofobia. Cambiare i nostri immaginari è un passo necessario, mettere in discussione i nostri condizionamenti ci renderà capaci di pensare e costruire una società migliore. Per questo libro ho incontrato persone impegnate per una società più giusta che mi hanno aiutato a capire meglio la complessità del mondo. Grazie a loro nasce questa riflessione sulle origini e sullo sviluppo della disuguaglianza e la certezza che il futuro dipenderà dalla nostra attitudine a riconoscere che tutte le culture partecipano a quell’insieme che è l’uomo” (Lilian Thuram).

Egli rifletteva anche sul fatto di come il calcio (e lo sport) spesso siano accusati di essere strumento per veicolare messaggi di razzismo e di disuguaglianza, sopratutto attraverso le tifoserie ma anche attraverso le parole dei dirigenti. Il campione francese sosteneva che, in realtà, il calcio (inteso come gruppo-squadra) avrebbe molto da insegnare allo sport ed in generale alla società civile, in tema di integrazione: il suo ribaltamento di visione parte dalla concezione di gruppo di giovani uomini (calciatori) di colori differenti, nazionalità differenti, culture e religioni differenti, orientamenti sessuali differenti, che imparano a vivere solidalmente, con obiettivi comuni ai quali tendere, insieme.

Fino alla storica sentenza c.d. “Bosman”, infatti, nei vari campionati calcistici europei era possibile tesserare un numero massimo di 2/3 “stranieri” per squadra e ciò comportava (per quel che ci interessa nel nostro ragionamento) una minore propensione alla cultura del “melting-pot”, dunque il dato che ci fornisce Thuram non è da darsi per scontato, avendo egli vissuto esperienze professionali calcistiche proprio a cavallo tra gli anni novanta ed il 2000. Una solidarietà di intenti tra giovani uomini che oggi riesce ad abbattere, di fatto, le barriere delle differenze – arricchendo reciprocamente i membri del gruppo-squadra – facendo capire come non vi sia relazione tra colore della pelle e passaporto e che la società di oggi può essere pacifica e multiculturale solo se dalle scuole e dallo sport si costruiranno valori condivisi di pace e rispetto.

Il secondo segnale di speranza, inoltre, riguarda un articolo su “Donna Moderna” di gennaio scorso, letto in una sala di attesa, in cui si parla di esperienze di padri che non vogliono essere chiamati “mammi”.

Un concetto tanto scontato quanto basilare: padri quarantenni che raccontano di non essere demandati da qualcuno nella gestione dei figli, quanto piuttosto protagonisti soddisfatti del proprio ruolo genitoriale. Addirittura c’era un padre che raccontava l’esperienza del congedo parentale richiesto per la nascita del secondo figlio. Bene così.

La cosa più simpatica (ed importante) era la risposta che questi uomini avevano dato a questo breve “test” sulla propria “indipendenza genitoriale”:

1) Sai fare la spesa senza che lei ti consegni la lista?

2) Tua figli* si sveglia con la febbre e tu e la tua compagna avete entrambi un appuntamento di lavoro: resti tu a casa?

3) Sai, in un giorno qualsiasi, se è finito il detersivo della lavatrice?

4) Hai il numero di telefono degli amici dei tuoi figli?

5) Fai il bucato delicato anche se lei dice che non lo sai fare?

6) Hai mai tagliato le unghie dei tuoi figli?

7) Sai dov’è il termometro in casa?

8) Prendi un permesso di lavoro per occuparti dei figli e dici la verità ai tuoi colleghi?

Ovviamente le risposte di quei signori erano tutte dei (convinti) “sì”.

 

(Gabriele Lessi)

 

 

 

 

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