21 Febbraio 2018

Disoccupazione, devirilizzazione, rete sociale, “banca del tempo”. L’esperienza di un disoccupato cinquantenne

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Questa riflessione nasce spontaneamente dallo stato d’animo che sto vivendo in un periodo di disoccupazione (sono senza un contratto di lavoro dal 1° gennaio 2017 quando la mia azienda editoriale ha ridotto gli impiegati in vista di una chiusura) sostenuto da un’indennità dell’INPS (che cala di mese in mese, lo sapevate?).

Il concetto di “lavoro” è indissolubilmente connesso a quello di “uomo/maschio”. Anche nella Bibbia, alla fine del libro della Genesi, alla cacciata dal Paradiso terrestre Dio dirà ad Adamo “Maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita… Con il sudore del tuo volto mangerai il pane” (Genesi 3, 17 e 19).

Lavorare è dunque un obbligo per l’uomo e la Costituzione italiana, del resto, viene definita come “fondata sul lavoro” (Articolo 1). Ed il lavoro, il mantenimento di se stesso e della propria famiglia è il primo dovere dell’uomo anche per la tradizione rurale mediterranea, “portare il pane a casa”. Il lavoro, però, è anche un diritto, sancito dall’articolo 4 della stessa nostra Costituzione.

Ma chi questo non può o non riesce a realizzarlo in un momento di crisi economica generale della società che ha portato ad un tasso di disoccupazione in Italia intorno al 12%? Questa affannosa ricerca di occupazione o comunque di un reddito più o meno precario cosa comporta al proprio “sentirsi uomo”?

Io parto “da me”, come mi hanno insegnato a fare oltre cinque anni di frequentazione del Gruppo di Condivisione di LUI e mi rispondo: “Mi sento un uomo a metà”! Soprattutto, ma non solo, per lo “sguardo sociale” che sento su di me. Ma proprio al mio interno. Come se il fatto di non avere un ruolo “attivo” nella società non facesse più di me un “vero uomo”.

Il sussidio di disoccupazione (oggi chiamato NASpI: Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego) che percepisco mi riporta alla situazione di colui che riceve una “paghetta” da “mamma Stato” in un periodo di difficoltà (neoadolescente a 54 anni!). E non mi consola il fatto che rifiuto orgogliosamente un sostegno economico dalla mia famiglia: mi sento di non svolgere il mio ruolo di cittadino “attivo”, “operativo”, “produttivo”

Eppure sono sempre in movimento: ho messo in campo molte potenzialità (laurea in Lettere, diploma come operatore olistico, diploma di counselor professionale), ampliato il mio raggio d’azione (Pisa e provincia, Livorno e Lucca) ed ho persino partecipato ad un talent show televisivo (MasterChef 7). Ma niente basta; mi sento sempre ed ancora un “uomo disoccupato” (o “inoccupato” anche se non suona meglio…).

Le mie giornate in casa hanno accolto le possibilità di una più “flessibile” gestione del tempo (quanto questo aggettivo mi richiama alcune vignette dissacranti di Altan!): cura del giardino, ordinamento della libreria, pittura alle pareti di casa, sgombero degli armadi dalla biancheria inutile, scrittura di piccoli racconti… Ma nemmeno questo basta!

Ritengo che un maschio, oggi, in una società nella quale il lavoro è sempre più precario e meno retribuito, debba ritrovare dentro di sé il proprio valore di uomo al di là del valore dell’uomo come lavoratore, ovvero “forza lavoro” produttrice di beni e denaro (come dice il Marxismo).

Dobbiamo riscoprire la nostra ricchezza affettiva, intellettiva, creativa, pienamente umana insomma, in direzione di una realizzazione di sé che sia più ampia di quella del lavoratore a contratto. Dunque benvengano i baby- e dogsitteraggi, gli chef a domicilio, la raccolta di frutta presso gli agricoltori della zona. Ma soprattutto il senso della rete sociale e la proposta dello scambio/baratto del proprio impegno lavorativo.

Sto personalmente provando a mettere in atto tutta la mia “resilienza” svegliandomi ogni mattina con uno spunto di propositività, bevendo un bicchiere d’acqua calda col limone e facendo una camminata di almeno 45 minuti. Per il resto del tempo cerco di individuare con chi e come scambiare capacità e competenze nella modalità da alcuni definite come “Banca del tempo”.

Io so fare le torte e tu potare gli alberi da frutto? Spendiamo il nostro tempo nel fare l’uno per l’altro ciò che noi sappiamo fare e l’altro no. Questo mi fa sentire meno “inetto” (se non la so fare io una cosa un mio amico certo la sa fare…) e meno “inoccupato”. E recupera e rinsalda rapporti interpersonali che magari diventano meno “superficiali”, lavorando assieme.

Anche questo è lavorare, anche questo è resistere alle difficoltà e guardare avanti, anche questo soprattutto è essere “veri uomini”. Provatelo! Perché in questo impegno ed in questi progetti il tempo passa in maniere più sana e veloce, e nel frattempo le ipotesi contrattuali si fanno più vicine e realizzabili. Io sto provando a farcela in questo modo!!!

Dott. Massimo Piccione

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