Smettere si può Centri per Uomini Maltrattanti

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Otto uomini violenti su dieci sono recidivi. Negli ultimi anni sono nate strutture e servizi rivolti a loro e ora si prova a fare il punto delle prime esperienze, tra il rischio di patologizzare e le polemiche sull’uso delle scarse risorse per il contrasto alla violenza.

Si potrebbe raccontare una storia tra tante. Quella di Anna Rosa, per esempio, uccisa a Matera da un ex convivente implacabile che, dopo aver scontato cinque anni di pena per averle inflitto quindici coltellate sull’uscio di casa, appena riacquistata la libertà è tornato a finire ciò che aveva cominciato, e con altre sei coltellate ha messo fine alla sua vita. La recidiva degli autori di violenza è straordinariamente alta: più di otto uomini su dieci rischiano di tornare a commettere gli stessi reati, se non interviene nel mezzo qualcosa o qualcuno. Ovvero se non sono presi in carico da un servizio o un centro d’ascolto per uomini matrattanti.

L’Italia in questo campo si è mossa con grande ritardo rispetto al panorama internazionale, e in una forte discrasia rispetto all’esperienza straordinaria, pluridecennale, di accoglienza, salvaguardia, empowerment rivolta alle donne vittime di violenza. Ma qualcosa negli ultimi anni è cambiato, e il quadro è oggi in pieno movimento. Lo racconta nel dettaglio l’edizione aggiornata del libro Il lato oscuro degli uomini. La violenza maschile contro le donne (Ediesse), a cura di Alessandra Bozzoli, Maria Merelli, Maria Grazia Ruggerini. La prima edizione, uscita esattamente un anno fa e presto esaurita, aveva spalancato un mondo, raccontando un attivismo dal volto nuovo e uno scenario composito fatto di uomini e donne, gruppi maschili e istituzioni pubbliche (a Modena il primo Centro gestito dall’ASL), associazioni culturali e istituti di pena. Ora le stesse autrici tornano a indagare questo panorama in mutazione, dopo un nuovo lavoro di mappatura sul campo e un ricco percorso di incontri – da Roma a Firenze, a Bologna e di nuovo a Roma a ottobre di quest’anno – che ha visto aumentare la partecipazione di gruppi, associazioni, singoli professionisti, ma anche operatori e operatrici di servizi pubblici interessati al tema e ad avviare un dialogo sulle metodologie di intervento.

Tra i cosiddetti “Centri per i maltrattanti” si trovano infatti esperienze molto diverse, sia per origine sia per funzionamento. C’è il CAM (Centro di Ascolto uomini Maltrattanti) di Firenze, che rappresenta per anzianità uno dei modelli più influenti in questo panorama, nato dalla volontà e l’impegno professionale di alcune operatrici provenienti dal Centro antiviolenza Artemisia, con il quale esiste tuttora una stretta collaborazione. Poi c’è il percorso dei Centri scaturiti dall’iniziativa di associazioni di uomini desiderosi di decostruire i modelli patriarcali e aprire nuovi percorsi di identità maschile: dal Cerchio degli uomini di Torino al LUI di Livorno. Una storia diversa è quella degli interventi nelle carceri con i maltrattanti, gli stalker, i sex offenders: alla casa di reclusione di Bollate, di San Vittore, di Opera, ma anche al Regina Coeli di Roma. Infine ci sono i Centri che affrontano soprattutto il tema della genitorialità e delle relazioni in famiglia, poiché nascono dall’esigenza di realizzare luoghi dedicati all’aiuto ed all’ascolto di uomini in difficoltà a partire dai conflitti familiari, con la consapevolezza che troppo spesso la separazione non porta alla fine delle violenze o dei comportamenti persecutori.

Quello che appare chiaramente dalla lettura dei nuovi dati della mappatura, realizzata a due anni di distanza dalla prima, è – si legge nel libro – “la vivacità e la rapida diffusione con cui i Centri per i maltrattanti, con i loro differenti iter di formazione, sono nati e stanno crescendo”: dodici nuove realtà si sono aggiunte al panorama complessivo, per un totale di ventinove Centri e iniziative attive. Un effetto della pubblicazione?, chiedo a due delle autrici, Alessandra Bozzoli e Maria Grazia Ruggerini. “Per certi versi spero di no!”, scherza Bozzoli, “nel senso che spero non ci sia alcun effetto-moda nella nascita di questo tipo di interventi”. Ma la valutazione di ciò che è accaduto nell’ultimo anno è positiva: un trend di crescita che significa “estensione di domanda, di capacità di risposta e di relazioni che si instaurano con soggetti privati e pubblici”.

Un rischio esiste, ed è quello della “neutralizzazione del conflitto”, lo smarrimento dell’orientamento pro-femminista che ha segnato le origini di questo insieme di interventi pur diversi tra loro, a favore di un approccio tutto incentrato sul disagio individuale dell’uomo che offusca la natura culturale e strutturale della violenza contro le donne. Maria Grazia Ruggerini però si dice serena: “non c’è da avere paura delle differenze, della pluralità delle esperienze. È ovvio che l’irrompere del tema degli autori di violenza ha rotto un equilibrio, ma questo è sempre positivo. L’unico rischio serio è che si provi a reintrodurre sottobanco l’approccio della mediazione dei conflitti per i casi di violenza contro le donne. Per ora, comunque, le esperienze del panorama italiano sono tutte pro-femministe”. Significa che nascono con l’attenzione primaria alla vittime e con lo scopo di aumentarne la protezione e l’empowerment, sia nelle relazioni di intimità, quando le relazioni ancora esistono, sia in seguito a una separazione e a una denuncia, quando il ritorno a un copione violento può esprimersi in modi persino più micidiali. Ma significa anche che non perdono di vista la critica delle relazioni di potere patriarcali come nodo profondo della violenza.

Uno dei risultati più importanti del libro e del percorso che ne è seguito è che la discussione sull’ascolto e il trattamento degli autori di violenza sta avvenendo in maniera non separata o conflittuale bensì in un confronto aperto con le associazioni di donne che dagli anni ’80 lavorano a contrastare il fenomeno. Basti pensare che l’incontro del 4 ottobre alla Casa Internazionale delle Donne di Roma, “La violenza maschile sulle donne al di fuori dell’emergenza”, che ha visto iscritte ben 230 persone, è stato organizzato da Le Nove, l’ente di ricerca che ha curato la pubblicazione, insieme alla rete nazionale dei Centri antiviolenza D.i.Re e a Maschile Plurale.

Non mancano le voci critiche, all’interno della rete dei Centri antiviolenza. Manuale Guarnieri della Casa delle Donne Maltrattate di Milano parla, in un post, di un nuovo “stereotipo” per cui “fare azioni a favore dei maltrattanti (uomini che hanno fatto, fanno, vorrebbero fare violenza alle donne) fa bene alle donne ed alla società” e dichiara le sue perplessità in proposito. Stefano Ciccone di Maschile Plurale discute in un altro post del “rischio presente in alcuni interventi”: la “psicologizzazione” della violenza, la sua riduzione a “patologia individuale da curare”, la “confusione tra dinamiche conflittuali e dinamiche di violenza con la ricerca di una mediazione di coppia in uno scenario in cui l’obiettivo dovrebbe essere interrompere una relazione violenta e non tentare di recuperarla”. Ma risponde anche indirettamente alle critiche quando parla dell’importanza di un lavoro con gli uomini e la necessità di affiancare a una competenza professionale, per esempio di tipo psicologico, una consapevolezza politico culturale “senza la quale ogni intervento risulta monco o controproducente”.

Sullo sfondo, il problema delle risorse. Nell’incertezza dei finanziamenti per il Piano antiviolenza e della loro distribuzione, i Centri rivolti ai maltrattanti – di cui è riconosciuta l’importanza dall’ultima legge 119 del 2013 – rischiano di suscitare le diffidenze di chi lavora con le donne vittime. La via d’uscita c’è però, ed è una: chiedere un impegno serio da parte dello Stato, ed esigere che le risorse per interventi diversi di contrasto alla violenza di genere non vengano poste tra loro in concorrenza ma considerate parte di un piano di intervento olistico e integrato.

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