8 Novembre 2018

L’inganno del buon padre di famiglia

L’inganno del buon padre di famiglia

Molto spesso si sente parlare di stereotipi di genere correttamente reputati di essere d’ostacolo al superamento di una cultura patriarcale sottotraccia che, di fatto, rende difficoltosa l’affermazione dei principi enunciati dagli articoli 2 e 3 della nostra Costituzione. Per avere cognizione pratica di ciò vengono in aiuto la giurisprudenza, la dottrina ed il diritto sostanziale, che non sono immuni dalle contaminazioni provenienti da prassi e ruoli dell’antichità.

Non si tratta di un ragionamento teso alla mera promozione del linguaggio di genere negli atti formali, piuttosto chi scrive si sta ponendo il serio dubbio che alcuni istituti giuridici ereditati dal passato possano condizionare in negativo tanto la formazione dei giovani giuristi, quanto il comune sentire.

Così come la lingua si evolve parallelamente ai mutamenti politici e sociali, anche il diritto dovrebbe farlo: facile a dirsi ma non a farsi.

Il Codice civile in vigore, per esempio, contiene un principio che esprime tutta la contraddittorietà di una legislazione che vuole sancire uguali diritti per ciascuno ma che prende a modello ruoli e comportamenti considerati appropriati per gli uomini: si tratta del concetto di buon padre di famiglia.

Questo tradizionale criterio ha a che fare con la misurazione dell’impegno richiesto da un soggetto nell’adempimento delle proprie obbligazioni, dunque, rappresenta un effettivo parametro di riferimento per commisurare la giusta tensione verso la realizzazione degli interessi altrui (v. art. 1176 cod. civ.).

Nello specifico, si tratta di quella scrupolosa sollecitudine che tutti noi dovremmo avere nell’adempimento di quanto pattuito: addirittura la giurisprudenza di legittimità (v. Cass. civ. n. 19778/2003) ribadisce come tale zelo sia quello che normalmente dovremmo attenderci da qualunque soggetto di media accortezza, in quanto memore dei propri impegni e cosciente delle relative responsabilità.

Come capirete, trattandosi di un istituto con carattere generale presuntivo, questo non può essere sottaciuto o considerato desueto, bensì dovremo assumerlo, anche oggi, quale paradigma della diligenza nell’adempimento delle quotidiane obbligazioni.

Ma di che diligenza si tratta?

Si tratta di una diligenza media, senza eccessi di conoscenza o di ambizione evolutiva. Dunque, è in questo modo che dobbiamo considerarci diligenti, salvo casi particolari.

In dottrina si discute anche sul concetto di perizia, compreso nella diligenza, così come si distingue e gradua la colpa in base alla natura dell’attività che si esercita, tuttavia, il comportarsi da buon padre di famiglia rimane canone di normalità per chiunque.

Il fatto che assumiamo come vero che comportarsi con detta diligenza sia discrimine tra “fare bene” e “fare male” ci da la controprova che siamo di fronte ad un “dinosauro giuridico” dall’immensa portata. Con la differenza che i dinosauri in carne ed ossa si sono estinti.

A cascata, la nozione di diligenza del buon padre di famiglia è presente in svariati altri articoli di legge non riferibili al Libro delle obbligazioni del Codice civile, come per esempio quelli inerenti l’esercizio della tutela, i contratti di locazione, di mandato, di deposito e quello di comodato, il deposito bancario, il contratto di fideiussione, il rapporto di lavoro, la mezzadria, la colonia parziaria e la soccida, ma in ogni caso segnano uno standard minimo da rispettare.

Come si relaziona questo principio fondamentale con la società d’oggi?

Come si attualizza il concetto di buon padre di famiglia in riferimento all’odierna definizione di famiglia?

Come si può sancire un sacrosanto principio di diritto senza alludere a ruoli di genere?

Come si può evitare di discriminare le generazioni a venire che non costituiranno una famiglia o che semplicemente saranno donne?

Come si lega tutto ciò con le politiche mainstreaming di genere?

Come si può sensibilizzare il Legislatore al riguardo?

Come si può protestare civilmente con la toga in mano?

Come si può fare giurisprudenza creativa applicando la norma nell’effettiva essenza, esplicitando – al contempo – l’avversità alle parole usate dal Codice per definirla.

Questi sono solo alcuni degli interrogativi legittimi.

Con tutto il rispetto per il diritto romano (v. la locuzione latina bonus pater familias) forse è giunto il tempo per cambiare la metafora – perché questa è la giustificazione giuridica che diamo alla locuzione in esame – che rappresenta l’usuale sforzo psicologico che è giusto attendersi dagli altri nella realizzazione degli incarichi affidati o nelle più disparate vicende umane.

Vero è che la genericità della terminologia giuridica (c.d. terminologia aperta) è spesso adottata in maniera tecnica per far convogliare in essa una moltitudine di casi specifici, così come è usata per dar spazio di manovra al giudicante, ma tutto questo non dovrebbe costituire un limite all’adozione di definizioni più aderenti alla realtà, che avrebbero peraltro una ricaduta positiva in chi, il popolo italiano, prende atto delle norme e dei provvedimenti giudiziali.

Lo iato che si forma tra il significato giuridico della locuzione “buon padre di famiglia” e quello del linguaggio comune rischia di creare malintesi, alimentare pregiudizi e svilire il senso di giustizia. Ad esempio, nel sistema di common law il medesimo concetto di “diligenza media” viene parametrato con metafore diverse, tipo chi “porta i giornali a casa” o “chi spinge il tagliaerba in maniche di camicia la sera” (senza accezioni di carattere sessuale), e – per l’effetto – viene adottato un linguaggio formale differente per alludere a ciò: si tratta dei concetti di “ragionevole prudenza” o di “ordinaria abilità”.

Non evolvere il linguaggio giuridico ci pone di fronte alla realtà di rimanere cristallizzati (linguisticamente) al tempo del proprietario terriero romano – magari proprio il Gladiatore (vedi foto dell’articolo) dell’omonimo film – che amministra coscienziosamente la propria azienda rurale al ritorno dalla battaglia, interpretando il ruolo del pater familias.

Dalla metafora allo stereotipo il passo è veramente breve.

L’opera di disambiguazione che è avvenuta in dottrina non pare corrispondere al significato popolare del termine, così come non corrisponde alla cura con cui il Legislatore costituente ha tenuto a ribadire che la pari dignità sociale e legale non debbano essere distinti in base al sesso di appartenenza.

Ma c’è di più.

Quale modello di “buon padre” andrebbe riprodotto oggi per ottemperare la legge: colui che è prudente, protettivo e preserva lo status-quo oppure colui che pone le condizioni di base per il pieno sviluppo personale altrui accettando la relativa alea?

Inoltre, sembra trasparire che la diligenza richiesta ad un “padre qualsiasi” sia meno stringente di quella richiesta, per esempio, ad un professionista. Chissà che questo assunto legale non rimandi impulsi negativi alla società civile nella misura in cui un uomo può sentirsi giustificato alla vacuità, riproponendo vecchi schemi di genere che apparivano superati con l’avvento dei Movimenti femminili del novecento.

Governare la complessità, senza cadere nelle semplificazioni, dovrebbe essere una delle missioni degli operatori del diritto, quindi il compito non dovrebbe spaventarci, semmai dovremmo chiederci se la categoria è pronta culturalmente per cambiare i propri paradigmi semantici.

Essere dei bravi magistrati, avvocati o notai non è sinonimo di essere sensibili a questioni del genere (e di genere), anzi, talvolta l’armatura della professione tende a far difendere la tradizione, senza concederci il lusso di contrastare le consuetudini che ci sembrano nocive.

La metafora del linguaggio funziona perlopiù dove corrisponde al sentire comune della società in cui è espressa, non pare funzionare invece nel contesto in cui, in prima battuta, può generare difficoltà di comprensione. Per fare un esempio, dopo la missione spaziale realizzata da Samantha Cristoforetti, in Italia non potremo più parlare della diligenza del “buon astronauta” alludendo ad un’accezione maschile.

Lo strumento concettuale giuridico che assume la metafora del buon padre di famiglia rischia di non far percepire all’interprete non-tecnico il vero senso della locuzione (stabilità di significato ma non staticità di interpretazione nel tempo, ndr), rischiando di esaltare un profilo sessista incompatibile con la legislazione nazionale e internazionale.

In buona sostanza, ad un lettore poco informato, il buon padre di famiglia potrebbe riferirsi tout-court ad un uomo, un marito, un padre italiano, magari uscito da un film di Dino Risi. Dunque, si potrebbe arrivare al paradosso per cui solo un uomo, un marito, un padre italiano può comportarsi diligentemente.

Se il diritto, nella mia definizione, dovrebbe essere inteso come un campionario di facoltà che si vuole ottemperare perché ci si riconosce in esso, è surreale accorgersi che proprio il linguaggio giuridico renda complicata tale immedesimazione.

Il diritto andrebbe fatto comprendere per poi pretendere che sia rispettato, non il contrario.

In ultimo, che ne sarà del buon padre di famiglia che adempie al meglio le proprie obbligazioni ma agisce violenza domestica in tutte le sue forme?

Viceversa, che ne sarà del buon padre, che per amore della propria famiglia, adempirà in ritardo ad alcune obbligazioni?

A me pare che l’attuale frattura sociale tra la dimensione pubblica e quella privata accentui ancor più la non-pertinenza dell’istituto giuridico in esame con il contesto storico attuale, si prenda ad esempio l’ascesa dei cosiddetti Movimenti populisti a discapito delle organizzazioni politiche tradizionali.

La contestuale crisi della figura del padre, non più assunto al ruolo di arbitro familiare, genera ancor più problemi interpretativi sul concetto di buon padre di famiglia, vista l’attuale liquidità delle relazioni sentimentali e visto anche l’impianto del sistema economico che ci vorrebbe come singoli consumatori.

Sia che si cambi il linguaggio giuridico, sia che non lo si faccia, il vero cambiamento nella nozione in esame risiederà nel desiderio personale di acquisire nuove competenze, anche emotive, che elevino l’interprete dal limitato compito a cui allude la norma civilistica (media avvedutezza).

Solo un atteggiamento di apertura personale all’evoluzione potrà eliminare lo stereotipo del buon padre di famiglia, prima ancora che venga abrogata la locuzione tecnica.

(Gabriele Lessi)

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